La riforma delle giustizia deve molto alla Ministra Cartabia che ha introdotto emendamenti importanti su un testo già redatto a suo tempo dal ministro Bonafede. L’obiettivo della riforma, è quello di velocizzare la durata dei processi in primis e conseguentemente evitare l’affollamento carcerario introducendo pene alternative come i lavori socialmente utili. Altro scopo è quello di aiutare chi ha commesso un reato a percepirsi come una persona da reinserire piuttosto che un reietto senza scampo.
Fin qui tutto giusto, ma evitare l’ingresso in prigione non basta. Non tutti possono evitare l’istituto di pena e occorre creare per i detenuti un ambiente almeno decente se proprio risulta difficile dare vita ad luoghi salubri e aperti alla formazione professionale.
In Italia l’articolo 27 terzo comma della nostra Costituzione dichiara: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” ma questo articolo nel nostro paese ma non ha ottenuto eco. La politica da decenni non si rende conto e finge di non rendersi conto che la situazione delle carceri italiane è drammatica (aggravata ora dalla pandemia) e non permette nessuna riabilitazione.
La recente visita della Ministra Cartabia con il premier Draghi alle carceri di Santa Maria Capua a Vetere dopo i fatti drammatici accaduti all’interno dell’istituto, certo ha sortito qualche effetto e ha fatto nascere la voglia di ristrutturare e adeguare il corpo della polizia penitenziaria, ma resterà solo un sano proposito o si tramuterà in realtà?
Le carceri italiane sono inferni quotidiani
Gli istituti penitenziari sono afflitti da carenza di personale, cedimenti strutturali, sovraffollamento, celle che a suo tempo sono state concepite per ospitare un detenuto oggi ne ospitano almeno tre se non addirittura quattro.
Le aree dei servizi igienici dispongono di docce e sanitari inferiori rispetto al numero necessario per garantire pulizie e docce calde. I tagli effettuati in questo ultimo ventennio dai vari Ministeri della Giustizia, indifferentemente dal loro colore, hanno reso la vita carceraria al limite della sopravvivenza. Non possono essere effettuati i normali interventi di manutenzione, mancano la carta igienica e le posate di plastica, di cui ogni detenuto deve dotarsi a sue spese e non tutti i detenuti hanno il denaro per acquistarle.
Le attività ludiche o lavorative riscuotono sempre meno interesse considerando che la diaria attualmente è ridotta a meno di un euro l’ora e qualora fosse più gratificante non ci sarebbe comunque personale sufficiente per garantire la necessaria vigilanza nei luoghi di lavoro.
Personale ridotto e sull’orlo della crisi di nervi
In ogni sezione, viene impiegato un numero di agenti inferiori a quelli previsti, con tutto quello che ne consegue per la loro incolumità personale e la sicurezza dell’istituto. Il personale di vigilanza è quindi numericamente inadeguato per assicurare un servizio funzionale e questo deficit comporta turni di lavoro massacranti.
Sia che l’istituto ospiti gli imputati di reati minori, reati contro il patrimonio vedi furti o borseggi o piccolo spaccio sia che invece vi siano detenuti sottoposti al regime di 41 bis appartenenti alla criminalità organizzata , l’effettiva operatività è di molto ridotta rispetto a quella necessaria.
Questo deficit incide naturalmente sull’orario di lavoro, con molte ore di straordinario a fronte di una retribuzione mensile non allineata ai rischi che si corrono. Al giorno d’oggi fare l’agente di polizia penitenziaria è un mestiere a rischio esaurimento fisico e mentale, che si manifesta tra le tante reazioni con crollo della motivazione e del senso d’efficacia, distanza emotiva dal proprio compito e la comparsa di freddezza, cinismo e distacco. In poche parole grandi depressioni che hanno portato alcuni agenti a togliersi la vita o al peggio a reazione aggressive e violente a danno degli stessi detenuti.
In sintesi le carceri italiane assomigliano oggi all’inferno dantesco e tra le tante celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante, non sarebbe male far leggere l’inferno della Divina Commedia all’interno di una prigione, dove mai il contesto fu più vicino a quando cantato dal sommo poeta, riservando come sempre la prima fila ai vertici della politica italiana.